fonte TOLBA’-associazione medici volontari per lavoratori stranieri-Matera

LAVORI DA MIGRANTI

K.K. E’ un uomo di quarantadue anni; ha studiato veterinaria a Tirana e si è laureato con il massimo dei voti, salvo in cultura marxista leninista in cui aveva, appena, la sufficienza. Ha lavorato per sette anni in un’azienda di Stato in cui si allevavano cinquemila polli, mille capre, duecento cavalli, cinquecento mucche. Seguiva sotto il profilo sanitario tutti questi animali, da solo. Nel ’91 è fuggito dalla sua Terra e da allora, da clandestino, ha fatto molti lavori per mantenere sé stesso e la sua famiglia in Albania. E’ arrivato in Basilicata regolarmente, due anni fa con la moglie e due figli. Ora di figli ne ha tre e presto quattro. Fa il manovale in un’impresa edile. Del suo vecchio lavoro di veterinario, che ama, parla con un po’ di commozione nella voce. E’ un irreprensibile lavoratore.


B.S. E’ un sorridente cinquantenne rifugiato kosovaro. Si trova fra noi da circa due anni, insieme alla sua grande famiglia allargata, circondato da quattro nipotini affettuosi. E’ fuggito dalla guerra e dalla persecuzione del suo popolo. Nel suo Paese aveva un’impresa di pompe funebri che, nella cultura della sua gente, è una missione oltre che un lavoro molto ben pagato. Ora fa l’imbianchino: è un grande lavoratore e non si sottrae mai alla fatica. Non vuole fare mancare nulla ai suoi. Ma si legge negli occhi la nostalgia del suo vecchio lavoro perché, forse, gli manca la gioia di accompagnare, con amore, nel loro ultimo viaggio gli uomini.


S.H. Ha lasciato Mostar dopo la guerra per ricongiungersi alla sua famiglia già in Italia. Nel suo Paese era un operaio specializzato nella costruzione degli elicotteri. Spesso viaggiava all’estero perché, operaio molto stimato e capace, faceva parte della squadra di manutenzione della sua fabbrica. Per mantenere la sua famiglia in Italia ha fatto il manovale edile, il meccanico e il saldatore in un’azienda dell’indotto del salotto.


I.K. E’ una simpatica quarantenne ucraina, laureata in economia e pratica di informatica. Conosce l’inglese e l’italiano. Ha cercato un lavoro adeguato alle sue conoscenze e alla sua istruzione ma non è andata oltre l’accudimento di persone anziane e malate. La sua cultura e la sua simpatia le sono servite a rendere un buon servizio ai suoi assistiti. Ora continua a fare “la badante” e si è rassegnata a non cercare altro: il suo scopo è di fare laureare in economia il figlio che studia a Pietroburgo e in quel figlio proietta, ormai, le sue aspettative di migrante.


T.N. E’ un senegalese di trentacinque anni. Nel suo Paese studiava filosofia. Incuriosito dal mondo è venuto in Italia: ha fatto il venditore ambulante ma non gli andava bene perché con ogni potenziale compratore incominciava a parlare di religiosità, di spiritualità, di fratellanza fra gli uomini e alla fine della giornata non aveva messo insieme niente per sopravvivere. Ha deciso di trasferirsi in Veneto dove ha trovato lavoro in un’acciaieria. Un brutto incidente sul lavoro lo ha fermato per molti mesi: ha deciso di riprendere a studiare e si è iscritto alla facoltà di filosofia di Padova. Studia Leibniz e Hengel fra una colata di acciaio e l’altra e questa è la sua forza per andare avanti e non considerare la sua curiosità per il mondo un fallimento.


A.S. E’un simpatico ragazzo kosovaro. Nel suo Paese, prima della guerra, viveva agiatamente, con la sua famiglia e studiava alla scuola alberghiera. La sua vita di diciottenne è stata sconvolta dalla guerra e in Italia si è messo a fare il muratore. Il suo datore di lavoro è contento di lui; ma la fatica ha cancellato la sua voglia di studiare e di migliorarsi, ma non ha cancellato il suo sorriso solare perché con il suo lavoro aiuta la famiglia a riconquistare l’agiatezza che aveva nel suo Paese.


C.H. E’una quarantenne di Mostar. Nella sua città, bella e ricca, lavorava come perito chimico in una grande azienda di Stato. Da quando è venuta in Italia, per ricongiungersi con le sue figlie che aveva affidato ad una parente, per sottrarle alla violenza e all’assurdità della guerra, ha lavato portoni, ha pulito case. Ora fa la collaboratrice domestica e ha raggiunto una certa tranquillità economica. Certamente ha rimpianto del proprio lavoro ma è orgogliosa di avere tre figlie che studiano con grande profitto e sicuramente riscatteranno i suoi sacrifici e le sue rinunce.


H.D. In Eritrea lavorava con organizzazioni non governative italiane per le quali svolgeva un ruolo di coordinatore dei progetti e di traduttore. Parla perfettamente l’italiano e l’inglese. La guerra lo ha costretto a fuggire. Ha accudito gli animali in un’azienda agricola e quando è stato raggiunto dalla sua famiglia ha trovato lavoro in un’impresa dell’indotto del salotto dove fa il magazziniere. La sua cultura non si è persa ma sicuramente non si arricchirà di nuove esperienze che lo avrebbero migliorato. Con la sua fatica fa vivere dignitosamente la famiglia e paga l’emarginazione per una guerra nella quale non ha mai creduto e che ha sempre avversato.


N.A. Viveva in Iran dove lavorava in una grande azienda di import export. Conosce cinque lingue, fra cui l’inglese e l’italiano. E’ sfuggita alla persecuzione del suo popolo con cinque dei suoi sette figli. Conduce una vita di stenti alla quale non era abituata. Il suo cruccio è la mancanza di denaro ma, soprattutto, la impossibilità di lavorare e di esprimere la sua intelligenza e le sue capacità. Cerca di aiutare i suoi compagni di avventura offrendosi come traduttrice e accompagnandoli nella complicata rete di burocrazia che lo stato di rifugiato comporta. Con vergogna e umiliazione nella voce chiede lavoro per sé e per il suo figlio maggiorenne che, studente universitario nel suo Paese, lavora, ora, in campagna.


B.C. E’ una bellissima ragazza di trent’anni, senegalese. Si è laureata in giurisprudenza nel suo Paese e poi, come molti suoi amici, spinta dalla curiosità e dalla disperazione delle condizioni di vita nel suo Paese è fuggita alla ricerca di nuove esperienze e una vita migliore. Fa l’ambulante e per molti anni è stata clandestina. Ora ha una bancarella, con regolare licenza; la gente si ferma, più attirata dalla sua bellezza che dalla merce esposta, ma poi compera sempre qualcosa perché è simpatica e sorridente con tutti. Chissà cosa sarebbe stata la sua vita se avesse potuto fare il lavoro per il quale aveva studiato e soprattutto, chissà quanto beneficio ne avremmo avuto, noi, se avessimo potuto fare tesoro della sua intelligenza!


B.C. E’ figlio di un capo clan nel suo Paese, il Senegal. E’ un ragazzo molto dolce. Si è laureato in Algeria in ingegneria elettronica e poi, come tanti africani, ha tentato l’emigrazione. Ha tentato di fare l’ambulante ma non era proprio il suo mestiere! Con i suoi possibili avventori intavolava discussioni sulla fratellanza che non avevano nulla a che fare con la vendita della sua merce. Ha poi lavorato come riparatore di fotocopiatrici e fax ma il suo datore di lavoro lo trattava da “negro” e questa cosa non poteva accettarla. Ha deciso di andare al nord. Ha fatto il portiere di notte in un ostello e di giorno continuava a cercare lavoro come ingegnere. Ma la sua laurea, qui in Italia, non ha nessun valore! Ha deciso allora di iscriversi al Politecnico di Milano ed ora sta per laurearsi in ingegneria informatica. Ma nel frattempo, per vivere, fa l’operaio in una ditta che produce tondini di ferro.


Queste sono solo, poche e brevi storie, delle tante storie che si potrebbero raccontare.
A queste persone penso quando sento parlare di diritti e di dignità sul posto di lavoro. Loro non godono di nessun diritto nè hanno la possibilità di dimostrare le loro capacità e la loro intelligenza, né sapremo mai quanto stiamo perdendo di arricchimento che altre esperienze, altre culture e altri modelli di vita potrebbero darci. Non lo sapremo mai, soprattutto se non impareremo a riconoscere agli altri il diritto di essere sé stessi e che non siamo onnipotenti.

  

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