UNA VISITA AL NUOVO CIE DI PALAZZO SAN GERVASIO di Stefano GALIENI-fonte CARTA

Una visita lampo quella di martedì 14 giugno che si sta rivelando utile per accendere i riflettori su un luogo che sembrava destinato all’invisibilità. Quasi al confine fra Puglia e Basilicata, Palazzo S. Gervasio, provincia di Potenza, è uno dei tanti comuni in cui è fondamentale l’agricoltura come fonte di reddito. Per anni ed in condizioni inumane, centinaia di lavoratori migranti hanno utilizzato alcune aree dismesse in prossimità del paese per accamparsi e contrattare con i caporali il prezzo del proprio lavoro. Pochi euro per giornate interminabili ed in condizioni che poco avevano di umano. Alcune associazioni, esponenti politici della sinistra, mondo antirazzista laico e cattolico, hanno cercato di intervenire per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, ogni anno sembrava fossero in procinto di partire progetti regionali – la Basilicata è retta da 15 anni dal centro sinistra – ma poi poco o nulla accadeva rispetto ai bisogni reali. All’improvviso, a seguito delle rivolte nel magreb, della guerra in Libia, del passaggio di profughi provenienti dai diversi paesi, l’area un tempo utilizzata per l’accoglienza si è trasformata prima in CAI [centro di accoglienza e identificazione] una delle tante tendopoli governate dalla protezione civile, poi, altrettanto rapidamente qualcosa è cambiato.

Senza alcun passaggio parlamentare o al Consiglio dei ministri, il CAI di Palazzo S. Gervasio, come quelli di S. Maria Capua Vetere [Caserta] e di Kinisia [Trapani] diventano centri di identificazione ed espulsione «temporanei» in altri termini dovranno servire a rinchiudere coloro che sono giunti in Italia senza avere diritto a forme di protezione e che dovranno essere, a meno di fatti nuovi, rimpatriati. Soprattutto a Caserta e a Potenza si lavora alacremente per innalzare mura, erigere palizzate, gabbie, rendere insomma invisibili al mondo esterno le strutture, in due mesi, fra convenzioni, ristrutturazioni, lavori edili, ecc.. si erogano quasi 10 milioni di euro. Sono centri a tempo, come si diceva, teoricamente dovrebbero chiudere entro e non oltre il 31 dicembre prossimo, ma è forte il timore che li si voglia rendere stabili.
Nel frattempo dal ministero fioccano circolari, la prima 1305 datata 1 aprile, individua soltanto in alcune figure facenti parte di organismi internazionali, i soggetti che possono avere accesso nei diversi centri, la seconda, a correggere, permette l’accesso anche ai parlamentari. Non possono entrare i collaboratori, i rappresentanti istituzionali locali e ovviamente i cronisti. Un gruppo di operatori dell’informazione in collaborazione con alcuni parlamentari ed esponenti dell’associazionismo, decide di intraprendere iniziative per porre fine all’ennesima sommatoria di violazioni della costituzione e delle leggi internazionali, parte una interrogazione parlamentare, l’Ordine e la Fnsi, chiedono un incontro al ministro Maroni, parte un primo lavoro di monitoraggio. Si prova ad entrare al Cie di palazzo S. Gervasio con una delegazione di parlamentari, Rosa Villecco Calipari, Jean Leonard Touadì, Beppe Giulietti, ma davanti ai cancelli, davanti a giornalisti, militanti antirazzisti, legali, rappresentanti istituzionali, il discorso non cambia. Entrano solo i parlamentari. Si resta fuori carpendo immagini da dietro il telone che copre la visuale, ogni tanto qualche solerte agente di polizia cerca di chiudere ogni pertugio. Un’ora sotto un cielo che muta in continuazione, a tratti sembra si prepari il diluvio, i ragazzi vivono dentro tende, in attesa dei container.
All’uscita i 3 sono visibilmente provati, è Rosa Calipari a parlare per prima ai giornalisti e le sue sono parole che non lasciano scampo: «Dentro ci sono 57 ragazzi tunisini in attesa di conoscere il proprio destino. Erano in ciabatte, solo oggi hanno riavuto le scarpe. Si teme che tentino di fuggire. Reclamano libertà ma sembrano volere un dialogo, chiedono di essere considerate persone». C’è chi prova a chiedere quale dovrebbe essere il destino del Cie, la risposta della parlamentare è secca: «Va chiuso». Touadì racconta di come su quei ragazzi si stia rendendo inesigibile lo stato di diritto, di come anche la possibilità di incontrare i legali di fiducia sia stata negata. Il suo è un commento amaro: «Se verranno rimandati in Tunisia, un paese in cui si è cacciato un dittatore appoggiato anche dall’Italia, porteranno con loro il ricordo di come anche da noi la democrazia sia merce rara e non valida per chi emigra». Giulietti, fondatore di Articolo 21 è altrettanto caustico: «L’assoluta mancanza di trasparenza nei luoghi di detenzione è una violazione della Costituzione. Ho assistito ad una sospensione dello stato di diritto che non può essere legittimata e che non riguarda solo i migranti rinchiusi, riguarda lo stato della democrazia nella nostra società».

Il racconto dei parlamentari è quello di chi si ritrova a che fare con persone in gabbia, trattenuti e funzionari di polizia, persone che non conoscono l’esito del proprio destino e che temono il peggio. C’è da immaginare cosa sarà questa struttura quando il caldo farà diventare torridi i pavimenti di cemento sotto il sole, o quando pioggia e freddo entreranno nelle ossa. Non si tratta di strutture umanizzabili ma di posti che vanno assolutamente chiusi. Prima di ripartire c’è il tempo per un altro giro in terre dimenticate. Si gira per campagne, fra strade sterrate e tuguri ancora in piedi. Ci accolgono giovani lavoratori provenienti dall’africa subsahariana, prima diffidenti poi felici di poter raccontare della propria condizione. Burkinabè con cui si parla in francese, ghanesi con cui si dialoga in inglese, ragazzi presenti da anni che parlano ormai italiano. Sono racconti di sfruttamento, di chilometri a piedi giorno e sera per un lavoro duro e malpagato, di vita in un giaciglio col timore di essere cacciati, dell’acqua potabile portata in enormi taniche, vendute dai caporali. Anche loro in fondo sono chiusi in gabbia, anche se non hanno agenti di polizia intorno. Quando arriva la notte restano solo il fuoco e le torce elettriche ad illuminare una campagna grezza e ostile e pochi contatti telefonici per poter chiamare, in caso di emergenza, una ambulanza.

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