L’inferno di Kinisia e il nuovo milionario Cie di Trapani
di Stefano Galieni
Una deviazione sull’autostrada fra Trapani e Marsala, piccole frazioni che si susseguono “Misericordia” “Rilievo”, poi l’aperta campagna, gialla e secca. La strada è sterrata e in lontananza un mosaico di colori: una volta era l’aeroporto di Kinisia. Tende azzurre, di quelle da campo, senza un angolo di ombra, container colorati, dai colori più diversi come mattoncini lego e poi filo spinato, sbarre, polizia e vigili del fuoco. Un inferno per 48 dannati, quelli che non sono riusciti a fuggire. Chi ci ha provato ed è stato ripreso racconta di maltrattamenti. L’apertura del nuovo Cie, progettato quasi 10 anni fa, è presentata come la soluzione perfetta, ma per cosa? Per rinchiudere in un luogo più inaccessibile e fino a 18 mesi persone colpevoli solo di essere arrivati in Italia bruciando la frontiera?
La nuova struttura super moderna, 206 posti, voluta dal potente di Trapani, l’onorevole Antonio D’Alì (PdL), è uno schiaffo al diritto e alla miseria. Sui costi per la sua realizzazione domina il silenzio ma si parla di almeno 10 milioni di euro, in una terra che avrebbe bisogno di altri investimenti, e contro persone che potrebbero trovare con una spesa assai minore modalità di inclusione ben diverse. Kinisia, come Palazzo S. Gervasio (Pz), rappresentano invece in pieno il pardigma di Maroni sull’immigrazione. A Pontida i suoi, saranno rimasti contenti nell’apprendere l’ennesimo giro di vite nei confronti di “clandestini” poco sfruttabili, ma oggi molti Cie sono vere e proprie polveriere pronte ad esplodere, di rabbia e di dolore. Contengono persone che credevano di trovare in Italia democrazia e diritti. Non è andata così.
1 luglio 2011