Un’arancia pulita contro la ‘ndrangheta e i caporali

imageViaggio in Calabria: borsa lavoro di Unicoop Firenze a sette braccianti che lavorano le terre confiscate alle cosche
di Andrea Rocchi

POLISTENA (REGGIO CALABRIA). C’è il potere. E ci sono i segni. Il potere è l’arroganza dei clan. Il controllo del latifondo, i caporali che rastrellano i neri, 10 ore di lavoro a 25 euro, un chilo di arance a 15 centesimi. È il frutteto e l’uliveto abbandonati dopo aver fregato i contributi Ue, è la truffa all’Inps dei falsi braccianti. È il capannone abbandonato, la strada mai finita, i ponti elevati sul nulla. È la tendopoli di Rosarno, le migliaia di “invisibili” che non fanno rumore perché deportati dal paese. Sono le ammazzate delle ’ndrine, i parenti che piangono figli sparati, la ’ndrangheta penetrata nei gangli vitali di una politica latitante, compiacente o connivente. Sono le minacce, la violenza, la paura.

I segni sono le terre confiscate ai clan Piromalli, Molè, Pesce ed oggi affidate alle coop degli uomini liberi. Sono i sindacalisti di strada della Flai Cgil che provano a strappare gli africani dai “capò”, ad applicare un contratto di lavoro stracciato dalla prepotenza del caporalato. È un edificio di sei piani sequestrato ai boss del paese e ristrutturato a centro polivalente e ambulatorio di Emergency. È il volto di don Pino Demasi, prete antimafia, che predica un vangelo della legalità ed aiuta centinaia di giovani a trovare una speranza in una terra dimenticata da dio. Sono i ragazzi della Valle del Marro che lavorano i terreni strappati alla malavita. E con loro c’è un pezzo di Toscana, ci sono Unicoop Firenze e la fondazione Il Cuore si scioglie che finanziano sette borse lavoro per i braccianti africani, che comprano arance e clementine della cooperativa Libera Terra per un comparto ortofrutta “etico”.
La mafia della “Chjiana”
Siamo a Polistena, piana di Gioia Tauro, “a Chjiana” come la chiamano i residenti: uliveti e agrumeti. È qui – per riprendere le parole di don Pino Demasi – che “il potere dei segni” prova ad opporsi ai “segni del potere”.
Qui Libera, l’associazione di don Ciotti, nel 2004 mette radici, apre Valle del Marro, comincia a lavorare i terreni sequestrati ai clan. 70 ettari di ulivi, 35 di agrumi. Arance naveline e clementine. È il Tribunale di Reggio Calabria, attraverso amministratori, ad assegnare la terra. Cominciano le raccolte, le produzioni. Anche melanzane. E peperoncini.
“Libera Terra” cresce, ma non sono rose e fiori. Lavorare quelle zolle confiscate alle famiglie ha un prezzo. E’ il prezzo della violenza dei clan. Così cominciano le minacce. E gli attentati. «Come quella volta che ci misero lo zucchero nel motore dei trattori – racconta Domenico Fazzari, presidente della Valle del Marro – O come quando ci hanno smontato tutti i paletti delle coltivazioni dei kiwi». Quelle stesse minacce che qui ben conoscono tutti coloro provano a ricostruire un tessuto di legalità. Come i sindacalisti della Flai Cgil. «A noi ci hanno tagliato più volte le gomme dei pulmini con i quali toglievamo i braccianti africani dalle mani dei caporali», racconta Celeste Logiacco, segretaria generale della Piana.
Perché la ’ndrangheta non è solo droga e appalti. L’agricoltura è ancora una fonte di guadagno. Fonte di frodi. E di sfruttamento. Basta guardarsi attorno. E vedere piante e campi abbandonati. Il tempo d’intascare i fondi europei e fare le valigie. «4.500 euro ad ettaro per poi sparire», spiega Fazzari. E le coltivazioni muoiono.
Arance, clementine e schiavi
A lavorare nei campi sono soprattutto braccianti africani. Vengono dal Senegal, dal Mali, dal Burkina Faso. Si spostano fra Calabria, Puglia e Sicilia. Per le raccolte. Fragole, pomodori, aranci, limoni. Nella piana si muovono in bicicletta. I pulmini, invece, li usano i caporali. Gaye Mandiene ha 27 anni, viene dal Senegal. Ora lavora per Valle del Marro. È uno dei beneficiari della borsa di Unicoop e Il Cuore si scoglie. Ora sta bene. Ma ha conosciuto lo sfruttamento. «Sì, ho lavorato anche per 20, 25 euro a giornata. Dieci, dodici ore di lavoro». Non è il solo. Mbaye, invece, vuole andare in Spagna. «Qui non c’è lavoro. Ma non posso partire, non ho il permesso di soggiorno». Raccontano di braccianti ad un euro all’ora e perfino di ragazzi non pagati dopo 10 ore chinati sotto il sole. Dietro la minaccia di bòtte.
La tendopoli invisibile
Polistena dista poco da Rosarno. Qui, nel 2010, gli africani della tendopoli furono protagonisti di una rivolta per le strade del paese. Misero a ferro e fuoco tutto ciò che si parava loro davanti. Stufi di vivere come schiavi. Di essere bersaglio di razzisti con carabina che sparavano ad altezza uomo. Ci fu rabbia, paura, clamore. Poi la soluzione. All’italiana.
Per risolvere il problema fu deciso di spostare la tendopoli fuori da Rosarno. Oggi il campo è in un’area artigianale vicina al porto di Gioia Tauro. San Ferdinando, precisamente. Ci dovrebbero vivere in 400 nelle tende messe a disposizione dal Ministero dell’Interno. Sono 800. Ma quando è il periodo delle raccolte superano di gran lunga il migliaio. Altri hanno occupato un capannone di un’industria aperta e chiusa come un barattolo. Sono gli invisibili. I fantasmi. Ti ne accorgi quando c’è il fattaccio. Ma a volte neppure quello. Pochi giorni fa, qui, ha preso fuoco una baracca.
Per poco non c’è scappato il morto. Sono venuti i carabinieri. Nessun altro. Dentro è una babele d’Africa. Fra capanne abusive, cucine da campo con fusti di conserve, un macellaio che vende carne di pecora appena scuoiata. Bagni all’aperto. Discarica sul retro del campo. Parabole satellitari. Ovunque odore di urina, immondizia. Non è umano vivere così.
Resistenza e riscatto
Don Pino ci invita a non parlare solo di una terra dimenticata. Ma di raccontare come “i sogni diventano segni”. Ama parafrasi e parabole, il parroco. Del riscatto dei ragazzi africani di Valle del Marro, braccianti strappati ai caporali e calciatori in una squadra dai colori d’Africa, della forza della parola di giornalisti che raccontano la verità (magari a caro prezzo come il cronista Michele Albanese oggi sotto scorta), di testimoni di onestà e perché no, di una chiesa, la sua, che da 25 anni non si è mai inchinata alla mafia. La chiamano resistenza.

Fonte: iltirreno.gelocal.it