da CosmopolisMedia: Giu’ a Boreano

Giu’ a Boreano

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Immah aveva solo 25 anni e veniva dal Ghana. È stato trovato impiccato ad un albero, lo scorso Settembre, sperso tra le campagne lucane. Quando arrivi in questi luoghi – e arrivarci è assai arduo, tra caldo, polvere e manto stradale impossibile – trovi silenzio e inevitabile accettazione; neanche due incendi sono “serviti” ad attirare l’attenzione verso quel pezzo di no man’s land

di Marialaura Garripoli

Immah aveva solo 25 anni e veniva dal Ghana. È stato trovato impiccato ad un albero, lo scorso Settembre, sperso tra le campagne lucane. Siamo nell’area nord della Basilicata; nel Vulture – alto Bradano, terra di confine con la Puglia: a soli 6 Km da Venosa – nella provincia di Potenza – si distende contrada Boreano, campagne ripudiate un tempo appartenute alla Riforma Agraria. Ma questo non è che uno dei tanti avvenimenti che ancor di più spingono i “migranti di Boreano” nell’oblio. Quando arrivi in quelle campagne – e arrivarci è assai arduo, tra caldo, polvere e manto stradale impossibile – trovi silenzio e inevitabile accettazione; neanche due incendi sono “serviti” ad attirare l’attenzione verso quel pezzo di no man’s land, così come non sono serviti i due servizi giornalistici andati in onda sugli schermi nazionali [Striscia la Notizia, Novembre 2015 e Febbraio 2016; ndr].

 

Il “ghetto di Boreano” continua a non suscitare interesse alcuno, mentre – ancora una volta, ciclicamente come una primavera – comincia ad affollarsi di braccianti in cerca di lavoro. Ghana, Nigeria, Burkina Faso, Costa d’Avorio. Via da luoghi ormai distrutti e persi dalle guerre e dalla povertà, con la disperata speranza di conquistare un futuro prossimo migliore di quello che si lasciano alle spalle. Viaggi disumani, al limite dell’immaginabile, per poi finire col lavorare ore ed ore sotto il sole cocente del Sud Italia: Venosa, Palazzo San Gervasio, Lavello; ma anche la provincia di Foggia, la Sicilia e poi Rosarno. La raccolta del pomodoro, delle arance, delle patate; purché si risponda al Mercato. Ma la morte di Immah lascia pensare che quella speranza, gelosamente custodita prima di ogni partenza, sia rimasta schiacciata sotto il peso dell’ingiustizia e che il nodo di quel cappio sia stato stretto da qualcos’altro, che va oltre il caldo o l’essere “fuori di testa”.

 

Presenza molto radicata a Sud, quella del caporale: un intermediario, tra i braccianti e gli agricoltori del luogo. Partendo dalla manodopera, l’intermediario fornisce tutta una serie di servizi indispensabili tanto per i braccianti quanto per le aziende agricole: dalla “semplice” supervisione del lavoro al reperimento degli alloggi, del cibo e dell’acqua; fino al trasporto della forza-lavoro nei campi. Andare in ospedale o raggiungere il paese più vicino costa 10 euro; ricaricare la batteria del cellulare ne costa almeno 5. Aver bisogno di qualsiasi cosa equivale a pagare. I caporali sono capaci di offrire quello che la domanda richiede. Mentre il Mercato tira le catene.  Secondo la Federazione Lavoratori Agroindustria (FLAI), la piramide gerarchica del caporalato vede gli imprenditori svettare al vertice; settimi, ultimi (dopo le diverse “sfumature” di caporalato) i braccianti ed i raccoglitori. Nel 2015 sono 3629 i lavoratori totalmente in nero, il 28,06%. Un singolo cassone vale appena 4,50 euro; durante la campagna di raccolta, si arriva a raccogliere una media di 450.000 cassoni in un mese. Un capo negoziatore guadagna 0,50 euro a cassone, che diventano  225.000 se moltiplicato per il numero medio di cassoni mensili [cfr. flai.it]. A Settembre 2015 sono state controllate 168 aziende tra il Bradano ed il Metapontino: 61 sono risultate irregolari; mentre su 920 lavoratori controllati, 282 erano irregolari e 103 “in nero” [cfr. materalife.it]. Tra i 15 ed i 30 euro per 8-12 ore giornaliere di lavoro massacrante. Gervasio Ungolo – responsabile dell’Osservatorio Migranti Basilicata (OMB), che mi accompagna in questo viaggio fuori dal mio comodo ed abitudinario spazio-tempo – dice che per i 600 ettari che costituiscono la superficie dei terreni del solo comune di Palazzo San Gervasio ci vogliono tra i 600 ed i 700 mila euro.

 

Almeno la metà di questa somma va ai caporali. La sua associazione fornisce ai migranti beni di prima necessità, come può esserlo anche una semplice bicicletta, servizi sociali e legali: dalla scuola d’italiano allo sportello informativo legale. Ma mentre camminiamo tra la cenere di quel che resta di alcune baracche e l’odore d’estate, incrociando di tanto in tanto gli sguardi (sorridenti, nonostante tutto) di qualche bracciante, Gervasio mi spiega come questa “emergenza stagionale” sia, in realtà, una questione aperta da circa vent’anni; una situazione che Regione Basilicata e Comuni interessati dovevano affrontare di petto da fin troppo tempo.

 

Ma le promesse sono state sempre disattese. E se da una parte il Comune di Venosa approva una delibera per mezzo della quale i braccianti titolari di un permesso di soggiorno umanitario potranno iscriversi all’anagrafe comunale (cosa, però, improbabile per via della Legge Bossi-Fini), dall’altra decreta lo sgombero coatto del “ghetto di Boreano”. Mentre nel campo allestito e gestito dalla Croce Rossa, nei pressi dell’abbandonata stazione ferroviaria di Venosa, c’è grosso malcontento: i migranti hanno sì un tetto sulla testa (che è quello di una ex cartiera oramai in disuso e logorata dai decenni passati), ma l’accesso è vietato ai non addetti e per parlare con loro bisogna farlo restando fuori dal cancello giallo. Circa venti migranti; tre fornelli da campeggio e le giornate che passano lentamente. Ma solo lo scorso sabato, tra le vie di Bari, migliaia di braccianti sono stati voce attiva nella manifestazione nazionale indetta da FAI-CISL, FLAI-CGIL e UILA-UIL contro il caporalato e lo sfruttamento umano. In Basilicata, la task force messa in piedi dalla Regione e dalle istituzioni locali non ha creato inclusione ed accoglienza; non ha fatto altro che amplificare l’emarginazione. Perché stare lontano dalle campagne di Boreano equivale a star fuori dal giro del lavoro. E la necessità è quella di lavorare, a qualsiasi costo. Anche se, come per Immah, il prezzo è valso una vita.