Guardare il Mondo dal Buco della Serratura – Ovvero come i CPR, i Ghetti e i Centri di Accoglienza per Lavoratori Stagionali sono il nuovo Modello del Controllo Sociale –
Lo Stato “liminale” quale distanza dell’osservatore dal soggetto guardato
Gervasio Ungolo 10/03/2021
In ogni epoca la linea di confine è cambiata nella sua rappresentazione è ha svolto ruoli diversi a seconda dell’oggetto dei contendenti.
Nella prima grande guerra alla trincea gli viene data quella funzione di limite da non oltrepassare. Rappresentata questa dalla fissità degli eserciti che si rimandano tra loro proiettili all’interno del quale i corpi sono protetti da un fossato.
Questa linea si evolve dopo la seconda grande guerra nell’erezione di un ostacolo, il muro, che anche questo separa e ripara, non dai proiettili ma dalla nuova divisione del giovane mondo che intanto si fronteggia su base ideologica.
In noi si è cristallizzata l’immagine di quell’ostacolo che divide in due la città di Berlino e poi una nazione e poi ancora l’Europa e ancora il Mondo conteso tra due schieramenti globali in conflitto.
Un muro, eretto alla fine della seconda guerra mondiale, non per fermare chi volesse entrare o invadere ma per sospendere chi volesse uscire e scappare. Questo visto dalla parte occidentale del muro stesso.
Se nella prima guerra mondiale la sicurezza del fante era data dalla distanza che intercorreva tra i due fossati nemici, spazio in cui correvano i proiettili dell’una e dell’altra parte, nella seconda grande guerra questa linea liminale era assicurata dall’altezza del muro, anche questo elemento superato oggi e del quale se ne apprezza più la forma (https://it.businessinsider.com/gli-8-prototipi-per-il-muro-di-confine-di-trump-sono-pronti-ecco-come-sono/).
Negli anni della globalizzazione e della crisi degli Stati Nazione questo spessore, la sua profondità, si è notevolmente assottigliato fino a scomparire, migliorandone così la sua mobilità in modo che ogni volta questo possa essere spostato a seconda della convenienza, della guerra da combattere, della propaganda che divide, cessando di essere delle “linee ordinate nella Sabbia a favore della loro ri-concettualizzazione come interfacce, come dispositivi, come iniziative” (Europe’s scattered border and the Mediterranean as a relational space, Timothy Raeymaekers).
Molte le definizioni e le allocazioni concettuali che tracciano la linea di separazione e che si spingono fino a parlare di paesaggio di confine per indicare lo spazio dialettico che emerge tra tali pratiche discorsive e la rinegoziazione spesso violenta delle logiche di regola che le stanno alla base (Brambilla, questo problema, vedi anche Rajaram e Grundy-Warr, 2007; Parker e Vaughan-Williams, 2009). Altrettanto sono i luoghi di confine se consideriamo l’arcipelago che è diventato il Mediterraneo e l’Europa stessa nel quale suo interno costruisce uno stato di regime di frontiera emergente. (Europe’s scattered border and the Mediterranean as a relational space, Timothy Raeymaekers)
Se consideriamo lo spazio occupato dal confine e quindi la difficoltà a superare la linea che divide allora vediamo come questo assume caratteristiche liminari di importanza notevole e come all’interno di questo spazio è concesso tutto quello che invece non c’è quando lo si supera.
É uno spazio in cui le regole sono temporaneamente bloccate, e queste non sono né di una né dell’altra parte. In questo spazio viaggiano i proiettili così come i corpi che scavalcano i muri e le navi che piroettano su se stesse per superare le correnti marine. La sua grandezza, o meglio la sua consistenza determina o meno i fatti che accadono. E questo confine allora si può superare con un piccolo salto quando serve a dividere territori regionali, aree ampie di sicurezza quando servono a dividere i conflitti armati e di occupazione, quando servono a fermare i migranti, ed è quello che succede nel Mediterraneo, ma anche luoghi di sosta di questi durante tutto il loro viaggio o nelle carceri libiche aspettando di poter fare l’ultimo salto verso una presunta liberazione o, ancora, nei tanti luoghi in cui vengono imprigionati per mancanza del documenti o in quelli in cui sono segregati socialmente e spazialmente i tanti lavoratori della terra, i ghetti. “Chi sono io se non posseggo un documento da mostrare” mi diceva un vecchio senegalese nel sotto passaggio della Gare du Nord a Bruxelles.
Nel mondo post globalizzato, in cui gli spazi sono diventati più vicini, la sicurezza del soggetto dall’altro non è più solo garantita dalle carceri, luoghi di espiazione della pena dopo una condanna accertata, ma c’è bisogno di inventarsene altri in cui limitare la libertà di chi non ha commesso alcun crimine tra quelli canonici che conosciamo se non quello di essere povero, ultimo, migrante, senza tetto. Mitigando in questo il grande senso dell’umanità che tiene assieme l’Europa i diritti e la negazione alle libertà. Per questo sin dall’inizio i luoghi quali i CPT e CIE e oggi i CPR sono presentati quali luoghi umani necessari in cui sono garantiti i diritti non da una regolamentazione propria ma da surrogati relazionali propri dei gestori e delle forze a protezione che i reclusi non scappino. Ma questo luogo liminale si ripete anche nei primi centri di accoglienza straordinari, lo è nei centri di accoglienza per lavoratori stagionali e lo è nei ghetti, anche se in questi ultimi lo Stato non è direttamente garante, nell’impossibilità vedersi riconosciuta una identità, una cittadinanza.
Non potendo però ascrivere alcun reato a questa condizione sociale, per grave perdita dello stato di diritto e dell’umanità che ha contraddistinto l’Europa nella sua storia, il migrante in virtù di una ricercata sicurezza generalizzata viene spinto o richiuso in zone liminali poste all’interno della nazione globalizzata. Una ristretta area in cui i corpi sono liberi di muoversi in assenza di regole se non quelle delle forze che ne assicurano la contenzione, militari, gestori o caporali che siano.
Questo avviene nei CPR (Centri Per Rimpatri) ma anche nei ghetti, luoghi informali in cui vivono migliaia di uomini e donne, o nei luoghi adibiti alla loro umana ospitalità tra cui i vecchi CAS (Centri di Accoglienza Straordinari) e i Centri di Accoglienza costruiti per lavoratori tra i quali abbiamo Saluzzo, San Ferdinando e Palazzo San Gervasio.
Anche questi ultimi edificati in apparenza per motivi emergenziali e umanitari, in realtà mettono in mostra tutto l’armamentario di controllo sul migrante che ne limita la sua libertà pena la fuoriuscita e quindi la perdita dell’unica possibilità che ha di assicurarti un tetto e una branda, la mancata chiamata al lavoro, la perdita della possibilità di trovare un documento per la regolarizzazione. Molte sono state le discussioni sulla presenza di un regolamento all’istituzione del Centro di Accoglienza per Lavoratori Stagionali di Palazzo San Gervasio e Venosa che veniva sistematicamente negato ai lavoratori ospitati e alla società civile. Questo ha determinato per diversi anni (2014-2019) l’impossibilità a poter accedere agli avvocati, ai medici, ai volontari e non solo.
Ecco allora che una nave piena di migranti diventa questo spazio liminale quando viene presa in ostaggio. Sia che venga riconsegnata ai carcerieri che li riportano in Libia sia che venga preso in ostaggio dagli Stati europei.
Spazi in cui anche la semantica cambia dove non c’è più una illegalità ne tanto meno una legalità ma si vive in condizione di a-legalità. Ed è questo lo spazio che seguita il migrante nel suo viaggio, ad ogni posta, in ogni casella in cui entra.
Ecco allora che il “confine non e’ una linea sulla mappa ma un processo di esclusione e di inclusione in cui i flussi, umani e non, vengono inquadrate all’interno della territorialità dello stato-nazione…” (Seminario di geografia: 17 gennaio 2019, Bologna. Timothy Raeymaekers Il confine profondo e la crisi mediterranea).