“Dust’S Tales” – I Racconti della Polvere –
Un docu-film Scritto da Simona Fernandez, Regia di Davide Murri.
Realizzato con il Contributo di AICS
( Agenzia Italiana per la Cooperazione allo sviluppo).
Recensione a cura di Chiara Santomauro 14 ottobre 2022
Una melodia malinconica e scene di realtà apparentemente lontane: è così che si apre Dust’s Tales – I racconti della Polvere, il docufilm diretto da Davide Murri e scritto da Simona Fernandez. È un progetto del 2022 che nasce dalla collaborazione di più gruppi[1] e di singole persone, che insieme lottano per portare a galla vicende tanto ignorate quanto note. Si tratta di una raccolta di interviste il cui obiettivo è rendere al pubblico un quadro completo dei processi migratori – dalle sfide della partenza, a quelle da fronteggiare all’arrivo.
Sempre più spesso, davanti all’enormità del fenomeno, le identità e le emozioni di chi migra passano in secondo piano – in quanto dati non catalogabili: quello che invece Murri fa è offrire uno spazio in cui raccontarsi da un punto di vista umano. La struttura del film tiene conto di tutto ciò: si contrappongono le immagini delle campagne del sud Italia a quelle delle zone rurali dell’Africa subsahariana, introducendo man mano un volto nuovo a cui corrisponde un nome, una provenienza e una storia.
La prima voce arriva da Borgo Mezzanone, una borgata in provincia di Foggia da anni al centro delle cronache. Le notizie che giungono da questo angolo della Puglia non sono mai positive: incendi, morti e risse rappresentano la quotidianità di un ghetto dei giorni nostri, che finisce per assomigliare a un carcere a cielo aperto.
“Non è come pensavo e mi aspettavo sarebbe stato, abbiamo trovato difficoltà qui, molti tra di noi sono morti”
Queste le parole di Abdinasir, il giovane somalo che da anni vive lì e che fa da apripista alla narrazione.
Come emerge dal suo racconto le disillusioni rappresentano una costante per i migranti (che siano irregolari, richiedenti asilo o rifugiati) i quali trovano nei cosiddetti viaggi della speranza, solo il primo dei tanti ostacoli da superare. La verità, sostiene Gervasio Ungolo dell’Osservatorio Migranti Basilicata, è che i viaggi – così come il lavoro in Italia – vengono idealizzati. L’idea di trovare qui quella tanto agognata ricchezza, si scontra con la cruda realtà e con gli impeghi irregolari, l’inclusione complicata, l’intricata burocrazia, le promesse non mantenute e le dignità calpestate. Tutto ciò si riflette in un circolo interminabile di regole che sfociano in rimpatri o fughe pericolose a causa della loro irrealizzabilità.
Alla fine, davanti a tali odissee, gli unici scenari lavorativi accessibili sono quelli relativi alla sfera della malavita e dello sfruttamento (come il lavoro agricolo, lo spaccio e la prostituzione).
– Non tutte le vicende però sono uguali, e questo Murri lo racconta: alcune si concludono con un lieto fine, come quella di Djibril Bah, un giovane ivoriano che ha lottato – anche più di una volta – per costruire il suo futuro.
“Come io immagino il mio futuro? Voglio fare un ristorante in Italia, voglio fare il mio ristorante in Italia, così domani posso essere fiero di me stesso”.
Tali storie rappresentano però una minoranza: basta guardare al sovrappopolamento dei ghetti sparsi nelle periferie di tutta Italia. Non potendosi permettere un contratto d’affitto – spiega Lucia Lapenna di FLAI CGIL Taranto – molti sono costretti a vivere in situazioni di forte degrado, in capannoni dove mancano i beni primari ed essenziali come l’acqua o l’elettricità. Non possono ambire ad altro perché non hanno le possibilità o i documenti necessari per cambiare la loro vita.
Contrapposte alle voci di chi si trova in Italia, nel docufilm vengono riportate le vite di chi in Africa ci è rimasto – come Ramatou Abdou e Oumarou – per costruire la propria quotidianità.
Il regista intermezza queste storie agli altri racconti, rendendo il divario ancora di più profondo: quello che emerge è la soddisfazione professionale e personale di chi riesce a fare della propria casa il luogo di lavoro. Il lavoro che viene presentato è plasmato sulle possibilità del territorio e sulle necessità della popolazione (come l’apicultura, l’agricoltura, il settore dell’allevamento).
Boubacar Alzouma, il segretario generale del movimento Gruppo di Azione Culturale e Sviluppo dei giovani allevatori “GAJEL SUDU BABA” – associazione agro-pastorale in Niger – illustra il loro impegno nelle aree di transumanza e nelle aree transfrontaliere per garantire nuove opportunità nei territori africani, in modo da ridurre il numero degli spostamenti.
La domanda a questo punto è: ha senso sfidare il deserto, le carceri in Libia, il mare e la vita stessa per continuare a vivere in condizioni precarie? Il tutto aggiungendo alle mancanze materiali (relative ai beni e servizi) anche quelle del cuore (la famiglia e la propria casa ). A tal proposito Happy – una donna nigeriana intervistata – sostiene:
“Io vorrei dire loro: non lasciate il vostro Paese, se non sapete realmente dove state andando, non andateci. Perché non solo state lasciando la vostra casa, i vostri figli, ma non sapete cosa andrete a fare in quel posto…”
La corretta divulgazione delle opportunità che i Paesi e i Governi offrono, è l’unico modo per concedere a chi è in dubbio decisioni ponderate e non iscrivere sulla polvere[2] la propria storia. «Dust, polvere»: è l’elemento centrale del titolo.
Pensando a questa parola quello che viene subito in mente sono i modi di dire relativi alla polvere, tutti caratterizzati da un’accezione negativa: tra cui l’idea di sconfitta (mangiare la polvere) o di fine (essere polvere, diventare polvere, polverizzare).
In queste storie invece la polvere ha ancora un senso diverso: è quell’elemento ricorrente sia nei territori dell’Africa che nelle campagne italiane, una costante che i migranti – convinti di aver lasciato indietro – ritrovano nuovamente, come una metafora sulla persistenza delle sfide da affrontare.
[1] Tra cui l’AICS, l’Associazione Salam, Il Movimento Africa ’70, l’Osservatorio Migranti Basilicata e la FLAI CGIL di Taranto.
[2] In Geremia 17,13 tale espressione è usata per intendere qualcosa “che si cancella in breve tempo”.